Mario Morales – 1996

Operazione invero audace – e però meritevole – quella di Antonia Fedon: penetrare nel mondo di Buzzati e svelarne i più riposti significati. Impresa assai difficile se Indro Montanelli, suo intimo amico – nell’impeto emotivo conseguente alla sua scomparsa – ebbe a scrivere: “Se un qualcosa c’è al di là di noi, nessuno se l’è guadagnato più di Buzzati, che ha trascorso la vita a captarne i messaggi e decifrarli per noi. Ora può darsi che sia lui a lasciarcene qualcuno. Ma come faremo ad afferrarlo? Solo grazie a lui l’ineffabile ci parlava. Ed è proprio questo che con lui ci viene a mancare. Con Dino Buzzati se ne va la voce del silenzio, se ne vanno le fate, le streghe, i maghi, gli gnomi, i presagi, i fantasmi. Se ne va, dalla vita, il Mistero. E che ci resta? “Mistero che si può tentare di capire solo se – come ha affermato Romano Battaglia – si è in possesso di “quella virtù che egli possedeva in alto grado, la sapienza della discrezione” e solo se ci si spoglia di ogni presunzione, avvicinandoci alla sua semplicità che ancora una volta il Montanelli coglie con puntuale sintesi: “L’eleganza ha rappresentato la vera etica della sua vita. Buzzati era la negazione dello snobismo”.
La Fedon ha avuto consapevolezza della difficoltà d’interpretazione di un personaggio apparentemente semplice, ma nella realtà complesso per la personalità multiforme e per i molteplici interessi: in lui s’incontrano e si scontrano fonti di cultura nordica e di reminiscenze classiche, visioni metafisiche della realtà e concreti riferimenti ed esperienze vissute, momenti d’angoscia per paradossali eventi ed evasioni fantastiche in visitazione di mondi irreali, immersi nel mito della fiaba. Ecco perché nel suo sforzo esecutivo la Fedon ha dovuto soprattutto compiere un atto di umiltà e riconoscere le insidie di una lettura il più possibile vicine al messaggio poetico di quelle specifiche opere, nelle quali prevale il senso del fantastico, il fascino del sogno e della fiaba, nella quale tuttavia si riscontrano – sia pure in un velo di malinconia romantica commista a sottile umorismo – i segni profondi ed arcani della realtà naturale ed umana: Racconti, Bàrnabo delle Montagne, Il Segreto del bosco vecchio.
A me pare che questa lettura Antonia Fedon abbia saputo attuare con estrema attenzione e nel contempo con convinta e sofferta partecipazione così da penetrare il più possibile nel mondo buzzatiano.
Il trittico sulla “Creazione” ritrae – con adesione al testo e nel contempo con autonoma interpretazione – la nascita della terra “con le sue meraviglie buone e crudeli” da una sorgente luminosa che ti dà il senso della vita. Nei tre dipinti vi è non solo la forza creativa dell’inizio dell’universo, ma il vitale dispiegarsi del mondo astrale, animale e vegetale in forti tonalità cromatiche ed in essenziali figurazioni che tendono ad idealizzare la realtà quasi a ridurla in valore simbolico. E’ un’operazione pittorica intesa ad esaltare la natura e nella quale l’uomo non è presente. E’ intuito, non escluso, quasi per richiamare la parte finale del racconto, nel quale il creatore – nel momento in cui deve dare la vita all’uomo – indugia nel timore di doversi poi pentire (“se appena gli dessi un po’ di corda, sarebbe capace, un giorno o l’altro di combinarmi l’anima dei guai. No, no, lasciamo perdere”).
Quell’uomo medesimo che nel quadro “Colombre”, tratto dall’omonimo racconto, porta seco il male del sospetto e la paura dell’insidia a fronte del terribile e gigantesco squalo, il quale anziché morte dà vita nel dono della “Perla del Mare”, portatrice di fortuna, amore e pace dell’animo. Anche qui il dominio dei colori (ora freddi e ora caldi) in un gioco di contrasti e di strutture geometriche dà particolare efficacia dinamica alla composizione.
L’uccisione del drago “pone l’accento sull’incombenza del male, quasi preannunciato dallo smisurato silenzio della montagna” e reso meno temibile dalla presenza sacrificale della capretta, che “sarebbe servita da esca per far uscire il mostro dalla caverna”. Qui l’esecuzione – per le tonalità e la spazialità – facilita l’interpretazione della drammaticità dell’evento.
Ne “Il grande ritratto” invece è felicemente espresso il senso buzzatiano della vita che ad una realtà aspra e cieca oppone la freschezza vitale di una giovane donna (“un baratro, un vallone senza sbocchi, un ripidissimo cratere che si prolunga tortuoso e a perdita d’occhio … strane costruzioni come scatole… non esistono finestre”) e poi, in felice contrasto,“controsole, snella come quando era adolescente, Olga in piedi sulla riva, completamente nuda”. Uno scenario di violente contraddizioni che viene reso pittoricamente in un alternarsi di luci e di ombre, che conducono ad effetti di lirico emblematismo.
Nelle tele, nelle quali rivive la bellissima fiaba del “Segreto del bosco vecchio”. La pittrice pone l’attenzione più sul mondo animale e vegetale che sulla realtà umana. Vi trovi la viva presenza di piccoli animali (dal bruco agli scoiattoli e ai ghiri), il volo e il canto di uccelli (la gazza, il gufo), una natura aspra, dove il segno di vita è dato da grandi abeti e da primitive abitazioni (“Da una parte si innalzavano a picco smisurati abeti, dall’altra sprofondava la valle secca con le sue terre crollanti. Sull’orlo c’era una vecchia casupola di boscaioli abbandonata”).
La figurazione fa rivivere il segreto di una realtà, nella quale avverti una compartecipazione al dettato fabulistico del racconto, nel quale ad una vaga parentesi di ascose nostalgie senti accomunato un senso di evasione liberatoria (“la purissima luce della luna e la presenza di innumerevoli geni raccolti al limite della radura”).
Le saghe montanare del “Bàrnabo delle montagne” nell’espressione pittorica della Fedon rivivono innestate in un paesaggio quasi irreale, pervaso da un senso di misteriosi silenzi, di atmosfera d’incanto e, perché no, di forti contrasti tra l’asprezza delle rocce, tra le nuvole minacciose e la forte luce del sole che, nel prevalere sulle tenebre, pare voglia dare un particolare privilegio alla positività della vita. Quella positività della vita che si riscontra ancor più nel quadro “le montagne sono proibite” che traducono l’antico amore del Buzzati per le cime dolomitiche (“esse stanno sempre sopra la città, dalla parte del settentrione, giorno e notte con il loro splendore. Da parecchi giorni mi sembra infatti di udire delle voci che provengono dalle montagne”).
Questo breve excursus sulla tematica di questa Mostra ha avuto inizio con la “Creazione”. Si conclude con la “Fine del mondo”, la cui rappresentazione è fedele al testo buzzatiano, che mitiga con un umorismo – lieve e amaro nel contempo – l’incombenza del giudizio universale (“Un mattino verso le dieci un pugno immenso comparve nel cielo sopra la città; si aprì poi lentamente come un immenso baldacchino della malora… Era Dio… Soltanto due frati, vispi vecchietti, se n’andavano lieti come pasque: ‘la è finita, per i furbi, adesso!!”).
In una panoramica di certo impegnativa la Fedon ha percorso gran parte dell’itinerario culturale di Dino Buzzati, affidandolo ad un linguaggio artistico che, seguendo un coerente filo conduttore, ha trovato nuove forze espressive in un’interpretazione essenziale della realtà, tradotta in poetiche astrazioni che richiamano gli altri esempi delle teorie simboliche del colore e degli spazi magici dell’espressionismo astratto. Vi è riuscita? Io passo la domanda all’ispiratore di questa impegnativa e difficile operazione pittorica.
A Dino Buzzati, scrittore, giornalista, poeta e soprattutto pittore. Sono certo che egli, sia pure con un sorriso (di modestia, di compiacimento?), levandosi idealmente dalle vette delle sue montagne, dirà: “Grazie, Antonia”.

Mario Morales, 1996